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mercoledì 11 aprile 2012

Semana Santa (2)

È sempre difficile dover parlare di povertà. Un tempo si poteva fare un paragone del tipo “noi stiamo meglio, anche se tiriamo la cinghia, e loro stanno peggio”; ora è difficile dire anche questo. Rimane il fatto che esiste ancora chi non ha nulla da mangiare per giorni interi, non ha nulla da bere, non ha una casa e quel lavoro malpagato che gli permette di, almeno, vestire i propri figli rischia pure di perderlo. Rispetto a tutto ciò noi stiamo meglio, la povertà estrema è sempre, purtroppo, estrema.
In El Salvador da tre settimane è scoppiata la protesta (dimostrata con uno sciopero continuo e, attualmente, senza data di termine) in una fabbrica che, oltre a non pagare da tempo gli stipendi si rifiuta di sedersi a un tavolo di trattativa per “modificare” un contratto che è tutto a vantaggio dei padroni e a svantaggio dei dipendenti, in poche parole licenziamento facile anzi, facilissimo.
I dipendenti hanno bloccato la fabbrica e i padroni sembrano fregarsene, forti anche del fatto che nè il Ministero del Lavoro nè il Tribunale dei Lavoratori si sono espressi a riguardo; spavaldi nel richiedere allo stesso Ministero di organizzare una Ispezione Speciale per dimostrare le irregolarità dei lavoratori accampati nella fabbrica.
I manifestanti sono incappati però in un grave errore, a mio avviso, la Semana Santa. Nessuno rinuncia al pranzo con i parenti e così la stragrande maggioranza ha mollato, ha lasciato il terreno conquistato preferendo la pace di casa e così, di tanti che erano, sono rimasti in 16 a presidiare (8 uomini e 8 donne) e a quel punto i padroni si sono sfogati.
Primo atto: scacciati i manifestanti dall’interno della fabbrica (sono stati lasciati nel giardini); Secondo atto: chiusura dei cancelli e relativo divieto di introdurre prodotti alimentari; Terzo atto: divieto assoluto di utilizzo dei servizi igienici; Conclusione: decisione, da parte dei propietari/padroni di mandare a morte certa le 16 vedette.
Ad oggi, e la Semana Santa è finita da 3 giorni, è fatto ancora divieto di utilizzo dei servizi igienici e nessuno può entrare dentro la fabbrica che è, dalla scorsa settimana, controllata da un maggior numero di vigilanti (ovviamente armati).
Ad oggi, ed è ormai un mese che è scoppiata la protesta nè il Ministero nè il Tribunale hanno detto qualcosa.
octavio

mercoledì 15 febbraio 2012

Caña de la muerte

24mila persone tra El Salvador e Nicaragua morte dal 2000 ad oggi, 2mila morti all’anno, tutti per insufficienza renale cronica e tutti lavoratori nelle piantagioni di canna da zucchero o di riso. L’anno scorso la Ministra della Salute salvadoregna, María Isabel Rodríguez, aveva richiesto un aiuto internazionale per far fronte a questa malattia che, come raccontano gli infermi, è subdola e quando ci si accorge di averla è già, ormai, troppo tardi.
Questo il racconto di una donna, una moglie che ha visto suo marito, padre di otto figli e lavoratore dall’età di 16 anni, morire: "No le paraba el hipo, no dormía, sufría calambres, dolores de cabeza, perdió el apetito, vomitaba el agua y los alimentos que trataba de ingerir, se le ampollaron la boca y (tenía) todo el cuerpo reseco, perdía la vista, no podía orinar, se levantaba de pronto desesperado y al final hablaba sólo y deliraba".
Essendo una malattia avrà anche le sue cause, solo che, in questo caso, non c’è accordo nemmeno a livello internazionale. Molti medici dicono che si sviluppa per questioni fisico-naturali. Gli operai che ne sono affetti sono tutti obbligati a fare grandi sforzi in condizioni pessime e, sopratutto, in zone molto calde che portano costantemente il corpo a uno stato di disidratazione tale che, a lungo andare, diventa irreversibile, così vengono compromessi inevitabilmente i reni. Altri, e io sono dalla loro parte, dicono che è a causa dei pesticidi: "Me ponía la mochila en el lomo y tiraba el veneno (herbicidas y pesticidas) sin ninguna protección, hasta una vez me cayó todo el veneno en el lomo”. Le parole di un altro ammalato fortunatamente ancora in vita. Non è un mistero che il lavoro nei paesi sottosviluppati non segue nessuna norma igienica e di sicurezza, passare giornate intere a spargere veleno senza nessuna protezione pensate davvero che non sia dannoso?
Allora il vero problema qual è? Le multinazionali e l’idea che l’economia di sfruttamento sia l’unica soluzione per poter accaparrare quanti più soldi possibili. Fino a che, e questo è una vita che lo dico, l’unico metro di misura sarà il (vil) denaro ci saranno morti, e non bisogna andare fino in Latino America per scoprirlo.
octavio

giovedì 2 febbraio 2012

Estamos en toque de queda (2)

In un giorno, domenica 29 gennaio, 34 morti, per essere cinici (e non ci vuole, comunque molto per calcolarlo) è più di un morto all’ora, gli scienziati direbbero 1 morto e 41 all’ora, come se qualche povero individuo ad ogni ora venisse mutilato di una sua parte.
Non parlo di Honduras, parlo di El Salvador, la distanza è veramente ridicola. Davanti a questi ulteriori 34 morti il Governo devefare qualcosa; sta progettando di mettere il coprifuoco.
Dalle 20.00 alle 6.00 sarà proibito a chiunque, minore, di circolare liberamente per le strade dello Stato salvadoregno o, meglio, per alcune strade; il blocco sarebbe infatti imposto solo nelle aree più pericolose come ad esempio Soyapango, San Juan Opico, Quezaltepeque, Lourdes, Colón, Sonsonate, Nahulingo, Santa Ana, puerto La Libertad, Apopa, Ciudad Delgado.
Saputa questa notizia mi è subito venuto alla mente uno Stato, quello messicano, che da tempo combatte contro il crimine organizzato e il traffico di droga, la scelta della repressione che cosa ha portato? Solo sangue, sangue che si è aggiunto ad altro sangue e, così, è finito tutto.
Il coprifuoco aiuterà certo una fascia, quella dei minori, più debole, tenterà di evitare, forse l’ingresso dei minori nelle maras. Ma pensate che i mareros “conquistino” nuovi adepti solo di notte? Pensate davvero che i mareros “lavorino” solo di notte e solo in determinate aree? Non credete che se si blocca una zona è solo un modo per spingere i criminali a conquistarne una nuova?
I mareros un tempo erano famosi, non che ora non lo facciano più, per sequestrare i bus e dargli fuoco (ovviamente con i passeggeri ancora sopra), questo accadeva di giorno, davanti agli occhi di tutti, platealmente. Il coprifuoco notturno come potrebbe cambiare questi fenomeni?
Non dimentichiamo infine la corruzione, interna ed esterna alla polizia e al Governo, questa in che modo verrà combattuta? Con delle aree proibite alle notte?
Qualcosa va fatto, certo. Forse se si facesse qualcosa di significativo.
octavio

giovedì 19 gennaio 2012

Voi crepate, noi ce ne andiamo

Se escludiamo gli anni ’70 e ’80, “anni di piombo” latinoamericani, anni di guerra e violenza, la cooperazione statunitense è sempre stata presente in Latino America. Il loro lavoro radicato nel territorio è sempre stato utile a tutta la popolazione sopratutto per le due principali aree d’interesse: l’acqua, privata in latinoamerica e dunque inaccessibile per i più poveri (inutile sottolineare che i poveri qui muoiono di fame), e il recupero dei giovani, firmatari di un contratto di morte appena entrano in una qualsiasi banda.
Oggi, 2012, gli USA ci ripensano, hanno infatti deciso di ritirare tutti i volontari presenti sul territorio honduregno. Tanti, il numero più elevato che gli USA abbiano mai avuto in uno Stato latinoamericano. Anche Lobo, con la sua orrenda faccia tosta, ha commentato la scelta statunitense come sviluppo normale dopo che la violenza è arrivata ai massimi livelli e ha messo in crisi la struttura delle ONG. La scelta avviene dopo che una volontaria è stata violentata e un volontario è stato ferito con un colpo di pistola a una gamba.
Dopo aver fatto sapere il ritiro dei volontari gli USA hanno anche dichiarato che non amplieranno nemmeno i progetti in El Salvador e Guatemale, pertanto una volta finiti quelli in essere il mondo del volontariato statunitense abbandonerà anche questi due paesi, che “vantano” tassi di violenza e omicidi altissimi.
Ora, io capisco che uno stato debba difendere i propri cittadini, ma allora perchè se Lobo questo non lo fa nessuno lo destituisce? Il problema non è chi colpisce questa violenza ma è la violenza. Anche chi va in territori pericolosi e/o poveri ad aiutare se non aiuta a bloccare la spirale della violenza non produrrà nulla. Ci saranno esiti positivi fulminei, distrutti tutti da nuovi attacchi di violenza. E, in fin dei conti, quando c’è la violenza chi se ne può andare se ne va, vedi gli USA (e come loro molti altri), ma chi pensa a chi è obbligato a restare perchè lì vive?
octavio

venerdì 21 ottobre 2011

È peggio del Mitch

El Heraldo
Sono insistente, lo so, ma sentire dalla bocca del Presidente di El Salvador (e se lo dice lui è vero, anzi forse è pure peggio) che la situazione attuale dopo le piogge torrenziali potrebbe essere (e dunque è) peggio del dopo uragano Mitch è preoccupante.
Teniamo presente un primo fatto: né l’Honduras, né il Salvador, né il Nicaragua (i tre paesi colpiti dal Mitch) si sono ancora ripresi dal post uragano. Pensate dunque cosa significa oggi avere il proprio paese messo peggio di prima, quel prima che ancora non era stato sistemato.
Sempre il governo fa sapere che sono molti i ponti caduti, sono molte le strade distrutte, un 10% del paese è inondato (El Salvador è piccolo, molto piccolo, un 10% è, dunque, tragicamente tanto), di questo 10% buona parte sono campi coltivati a mais, riso e fagioli cioè la base dell’alimentazione latinoamericana, 36 sono i morti certi, 50mila gli sfollati.
Avendo il Paese ottenuto lo stato di calamità naturale il Governo può ora rilasciare dei fondi necessari per la ricostruzione, e che ricostruzione, ma il problema vero ora è un altro, è la paura delle banche. E perché proprio le banche in un momento così drammatico? Perché il vero problema e il vero spauracchio contemporaneo, in un epoca di crisi, sono loro. La paura più grossa che preoccupa oggi i contadini di tutta El Salvador, piccoli o grandi che siano, certamente poveri è che le banche ritirino i prestiti o confischino i beni; le coltivazione sono distrutte non c’è più certezza sul come tirare avanti e anche sul come pagare il debito.
Che cos’è dunque che fa davvero schifo oggi? Che il buldozer dell’economia non lo ferma nessuno, nemmeno la compassione e nemmeno le catastrofi naturali, chi si vede portare via tutto dalla Natura si vede poi soffocato dall’uomo.
octavio

giovedì 20 ottobre 2011

Rorate Cœli desúper, Et nubes plúant justum (2)

El Salavdor e Honduras affogano, e questa volta non per problemi politici ma per problemi metereologici. Non è una novità che la stagione delle piogge porti qualche danno, quest’anno però è emergenza 15 i morti in Honduras, 32 in El Salvador, a migliaia gli sfollati, in entrambi gli stati. Alcuni paesi hanno già dato inizio agli aiuti umanitari, ma il problema rimane grave, rimane disperato e dunque c’è bisogno degli aiuti di tutti.
Provate ora a fare come ho fatto io, inserite nell’apposita finestra di Google la dicitura ALLUVIONI EL SALVADOR o ALLUVIONI HONDURAS, nessuno sta facendo niente in Italia se non un’associazione, qui il sito internet.
Da ciò che si racconta sembra pure che i paesi in cui sono attivi siano ben conosciuti dai volontari che là vivono, sembra che da italiani siano diventati salvadoregni e questo, a mio avviso, è lodevole.
Il fatto ancora più interessante è che questa associazione abbia deciso di aiutare paesi che normalmente non cavalcano la cronaca dei giornali e che spesso nessuno sa che esistono, questo è ancora più lodevole. Provo repulsione infatti per le grandi associazioni che fanno sicuramente del bene, ma decidono i luoghi di intervento solo per la pubblicità o per i ritorni economici, dare voce a chi non ne ha è difficile, bisogna solo tirarsi su le maniche e spaccarsi la schiena.
Quanto da me descritto è così lodevole da meritare un aiuto? Beh questo spetta a voi deciderlo, io spero di sì.
octavio

lunedì 12 settembre 2011

A tomar café mi amor

Non c’è bisogno che io stia qui a disquisire sulla precarietà di vita dei coltivatori latinoamericani (ma non solo loro) di caffè. Internet straripa di indagini, documenti e immagini che testimoniano il lavoro duro e difficile che l’uomo compie prima di portare la pianta in produzione e dopo durante la raccolta; fatica ripagata con quasi nulla in cambio. El Salvador ha però da sempre avuto la “fortuna” di poter basare su queste piantagioni l’economia nazionale che ha sì arricchito i soliti latifondisti ma ha anche permesso di non mandare alla completa deriva un paese dove la povertà estrema è esperienza che quasi tutta la popolazione vive o ha vissuto.
Dal 2008 è nata una nuova idea al crimine organizzato: derubare il caffè dalle piantagioni. Oggi, 2011, gli assalti sono così organizzati che è nato un vero e proprio mercato nero del caffè, lo potrei definire mercato nero legalizzato essendo che tutto lo Stato sa quali torrefazioni comprano caffè rubato ma nessuno fa nulla per fermarle.
Le aggressioni si caratterizzano dall’arrivo di uno o più camion carichi di giovani che, armati di tutto punto, bloccano la piantagione per ore, obbligano i lavoranti a caricare i sacchi sui camion e le donne a cucinare per loro, inutile dire che chi prova ad alzare la testa è subito ferito o ucciso.
La polizia? Inesistente. O non si presenta sul luogo dell’assalto o si presenta ma in numero troppo ridotto per poter fare qualcosa. Il governo? Lo dicevo anche prima: se ne frega. I coltivatori? Non hanno altra scelta. O accettano di essere derubati non solo del loro vivere ma anche della loro fatica o se ne vanno, abbandona i campi per andare in città nella “speranza” di un futuro migliore.
octavio

giovedì 16 giugno 2011

Educazione alle armi

Non è una novità che El Salvador veda nel problema giovanile un cancro insanibile, non è nemmeno una novità che moltissime ONG lavorano per evitare che i ragazzi (anche giovanissimi) finiscano nelle mani delle maras e segnino per sempre la loro vita. Non è solo un segno fisico (il o i tatuaggi) ma anche psicologico che difficilmente è possibile superare. La situazione in Salvador però sta degenerando e la violenza è sempre più alta, è ora che intervenga il governo. Detto, fatto, solo che Funes e i suoi sbagliano completamente di rotta: il nuovo sistema per evitare che i giovani rimangano nulla tenenti e girino a vuoto per la strada è l’introduzione (non ancora certa ma quasi pronta) della leva obbligatoria. È vero che Funes ha precisato che non verranno usate armi, ma questo vale solo per il primo corso, quello che ti insegna a essere sì una persona civile ma a non avere nulla in tasca per migliorare la tua vita. Lavoro nell’esercito lo si ha solo se si sanno usare le armi e quindi prima o poi fucili, pistole e bombe a mano finiscono nelle mani di giovani adolescenti che per svariati motivi, primi fra tutti i problemi famigliari che ogni salvadoregno vive, possono poi abbandonare il corso e essere già addestrati per entrare nelle bande. Ma guardando il fatto in maniera più generale è possibile davvero credere che un giovane che vive per le strade, che non ha soldi, che non ha lavoro, che non ha nulla, magari con un figlio a carico, smetta di pensare al crimine come soluzione dei suoi problemi dopo 6 o 12 mesi di corso presso l’Esercito?
Ancora una volta vince l’idea della tolleranza zero, ancora una volta vince l’idea del “facciamo fuori chi è selvaggio”. Noi, giovani e meno giovani, ricchi ben pensanti e borghesi, vestiti in abiti chic e con i soldi sempre in tasca non riusciamo più ad accettare chi è troppo selvaggio rispetto a noi. Non sarebbe più semplice (e anche meno costoso) incrementare quei centri già esistenti che lavorano per dare a quei giovani disagiati non solo mangiare e vestiti, ma anche un modo nuovo di essere accolti e sostenuti? È si un problema di educazione quello che va affrontato, ma non certo un’educazione alle armi.
octavio

venerdì 25 marzo 2011

Perdóname madre, por mi vida loca

Ogni “gioco” ha delle regole che vanno rispettate, oggi vi voglio mettere a confronto due realtà che vivono lo stato di El Salvador:

1. “Agiremo contro la delinquenza attraverso lapidazioni, decapitazioni, smembramento dei corpi le cui parti disperderemo verso i quattro punti cardinali, come segnale che stiamo in ogni luogo”. Questa è la dichiarazione più feroce che sia stata pubblicata via internet da quando si pensavano finiti gli squadroni della morte, e invece eccoli qui, pronti ancora a colpire, anzi hanno già iniziato a uccidere.
2. “1.- No cooperar con la policía 2.- Hazte cargo de tus propios problemas 3.- Nunca delates a la pandilla 4.- Ningún insulto se queda sin respuesta. 5.- No cometas crímenes en tu propio vecindario 6.- No metas a personas inocentes, mujeres o niños 7.- Escuelas, Iglesias Tiendas y Cines son territorio neutral”. Regole semplici e di facile comprensione per le due maras che hanno da tempo messo in ginocchio il paese.

Il Salvador vive oggi uno dei più gravi problemi di violenza che si fossero mai pensati con la fine della guerra civile, più di 6 milioni di abitanti e un primato di morti che fa rabbrividire: 76 omicidi ogni 100mila abitanti; la media è di dieci omicidi al giorno.
Oltre alla morte non si calcolano più le rapine, i feriti, gli stupri. Se un tempo era facile dare la colpa sempre e solo alle maras, a quei giovani disposti a tutti per il controllo di lembi di terra o di maggior traffico di droga, ora ritornano anche gli squadroni della morte: il collasso è vicino.
È anche per questo motivo che Obama ha fatto visita al presidente Funes dichiarando quanto segue: “Será un programa diseñado y liderado en Centroamérica por los gobiernos de la región y confío en que el presidente Funes demostrará gran liderazgo en asegurar que ese dinero se gaste apropiadamente en El Salvador. El énfasis es trabajar con un enfoque regional y los países centroamericanos deben ayudar a darle forma y diseñar cómo el dinero debería ser gastado”
I soldi di cui stiamo parlando sono 200 milioni di dollari da distribuire (anche se non si sa bene come) a tutto il latino america, la scelta di investimento sarà decisa dallo stato che li otterrà. Davanti al suo collega salvadoregno Obama ha però dato peso soprattutto al mondo dei giovani che, a detta dello stesso presidente, oggi hanno solo due possibilità: emigrare negli USA (e si potrebbero fare milioni di post sulla tratta di immigrati organizzata dai “coyotes”) o entrare nella delinquenza.
Le domande alla luce di questo sono: siamo sicuri che solo i soldi risolveranno il problema? Siamo sicuri che questi soldi non saranno rubati dai venduti che lavorano nel governo? Siamo sicuri che non serva anche un cambio di educazione, di vita e di sguardo per poter porre fine alla spirale di violenza che flagella El Salvador?
octavio

martedì 22 marzo 2011

Yes, we can? E allora fallo!

Obama è partito (non di testa). È andato a far visita all’America Latina, quella che sta sotto di lui ma della quale se n’è sempre fregato. Dopo aver visitato Brasile e Cile oggi arriverà in El Salvador per rendere omaggio a Monsignor Romero, in attesa di sapere che cosa dirà, era partito per ricucire i legami con i latinoamericani ai quali aveva promesso grandi cambiamenti che non sono mai arrivati, vi voglio raccontare le proteste che sono nate in quel piccolo stato dove povertà e violenza sono ormai normalità.
Davanti alla cattedrale, quella dove andrà Obama a rendere omaggio, si sono riuniti circa duecento (si sa che le cifre non sono mai precise ma ciò che importa è che qualcuno in quella piazza c’era) honduregni per chiedere il ritiro immediato dell’appoggio che gli Stati Uniti danno al governo di Lobo; 200 honduregni hanno manifestato questo loro dissenso mettendosi in croce, simulando di essere dei crocifissi.
Nella piazza è stata fatta una simulazione, in Honduras le crocifissioni sono la reale vita di quel popolo. È di ieri la notizia della morte di un’insegnante per mano della polizia, un insegnate che stava protestando; la fonte è certa, la fonte è una persona che io conosco. Oggi nuovi manifestazioni sono organizzate in El Salvador, anche grazie all’aiuto di molti studenti salvadoregni. È questo ciò che va sottolineato, il popolo sa che cosa vuol dire soffrire e quindi si schiera dalla parte di chi deve ricevere giustizia, i potenti invece non sanno che cosa sia il dolore, loro guardano solo al denaro, guardano solo agli interessi personali: ecco perché Obama ha finanziato il golpe in Honduras e ora accetta e sostiene Lobo, un assassino dalle cui mani gronda ancora sangue.
Per ricucire con il Latino America Obama dovrebbe capire solo una cosa: se la gente soffre va aiutata. Che sia Centro o Sud poco importa la povertà lì è estrema, la politica non dovrebbe risolvere questi problemi primari prima di fare grandi discorsi o fare foto in cui ci si stringe la mano sorridendo?
octavio

domenica 20 febbraio 2011

Morti i giovani non c'è futuro

63 i morti nel 2009, 52 nel 2010 e i numeri hanno già di molto superato lo zero anche per il 2011 (e siamo solo a febbraio). Tutti questi numeri sono ragazzi, adolescenti di età compresa tra i 14 e i 18 anni, studenti uccisi in scontri con altri giovani in El Salvador. Gli ultimi due ragazzi scomparsi sono stati uccisi il primo (18 anni) mentre scendeva da un bus, accoltellato al torace, in San Salvador e il secondo (16 anni) a Sonsonate in cause sconosciute ma ritrovato con mani e piedi legati con dei sacchetti di plastica. Le morti tra giovani studenti sono uno dei problemi principali a cui la politica salvadoregna sta cercando di porre fine, un passo importante (almeno per la politica, io non ne sono così convinto) è stato fatto con l’approvazione del Plan de Prevención y Protección Escolar 2011 firmato da Ministero dell’Educazione e Polizia, firmato esattamente una settimana prima che i due ragazzi venissero uccisi. È facile riempire i palazzi governativi di carte firmate e timbrate più difficile mettere in ordine un paese che non si è mai ripreso dalla guerra. Il vero problema è di tipo educazionale, da condividere proprio con i giovani e gli adolescenti. Far vedere che il positivo esiste anche in una vita totalmente negativa è fondamentale, strappare i giovani dalla routine di violenza che incontrano o compiono quotidianamente è il primo passo per evitare i morti. È giusto fare piani per la salvaguardia e la sicurezza, utile per avere delle regole, ma al giovane che cosa importa? La repressione sappiamo già a cosa porta, non dimenticando anche che la vendetta cova dentro ognuno di noi.
Se muoiono i giovani il futuro si arresta, il paese è destinato a scomparire sotto il peso della vecchiaia, l’intelligenza della politica si dovrebbe vedere in azioni per la gioventù, non prevenire ma educare.
octavio

giovedì 6 maggio 2010

Los medios de comunicación frente al dolor y el sufrimiento.

El presente ensayo está basado en el tratamiento que el periódico El Diario de Hoy le dio a las noticias de muerte a causa de violencia que acontecen en El Salvador, entre el 20 y 30 de noviembre de 2009. Al mismo tiempo, se enmarca en una reflexión sobre la actitud que éste debería de tener frente al dolor de los demás, visto desde la ética del dolor noticioso de Alberto López y Hermida Russo. A partir de esto se plantea que los periodistas de este medio de comunicación salvadoreño, convierten en espectáculo el sufrimiento de los seres humanos, lo cual no contribuye a la construcción del bienestar en la sociedad.
En la actualidad, la mayor parte de la agenda mediática está basada en el dolor humano, la muerte, tragedias, violencia, accidentes, etc. Pareciera que son estas temáticas las que aumentan la audiencia y las ventas. A sabiendas de que todo medio de comunicación es una empresa y por ello busca lucrarse para mantener su posicionamiento en el mercado, cubre los hechos que causen más impacto social; porque de esta forma trata de superar la búsqueda de información de la competencia y, para alcanzarlo, no le importa si se sobrepasa al mostrar los sucesos de forma cruda y amarillista. Un claro ejemplo es el titular de la nota del 20 de noviembre: “Una persona es asesinada cada dos horas en El Salvador”.
Susan Sontag afirma que: “Los hechos de dolor, del horror y del terror son algo habitual en los medios tradicionales…El hombre moderno cuenta con innumerables oportunidades para mirar los horrores que ocurren en el mundo” , a partir de ello el ser humano se ha acostumbrado a ver la muerte y violencia como algo cotidiano, que lo convierte en un ente apático al dolor ajeno.
Vivimos en la era de la información, que nos llega en gran medida a través de imágenes, las cuales se han transformado en la única forma de representar los acontecimientos para provocar sensacionalismo y captar la atención de las audiencias; por lo tanto, ahora lo que no tiene imágenes resulta poco llamativo, no impacta, ni causa interés. Lo que no tiene imágenes ya no es noticia.
Fernando Savater dice que “las ideas no son imágenes…estamos acostumbrados a pensar que toda idea tiene que ir acompañada de las imágenes” , por ello las noticias de muerte para el imaginario colectivo salvadoreño remiten a fotos de hechos sangrientos y grotescos, cayendo así en el fatalismo.
Ante esto, vale la pena cuestionarse si El Diario de Hoy podrá llegar a transmitir la información sobre el dolor sin sensacionalismo, porque esto únicamente contribuye a seguir creando una sociedad anestesiada moral y emocionalmente. Pasiva ante la necesidad del otro e insensible frente a la realidad.
Ética noticiosa: El periodista ante el sufrimiento
Según Alberto López y Hermida Russo “el sufrimiento es una clave que se arraiga en lo más íntimo de la persona al punto de poder afirmar que sin dolor el hombre no sería tal…sólo el hombre puede sufrir” ; por ello, toda la especie humana está condenada a sufrir en la medida en que carece de algo (salud, dinero, tranquilidad, etc.).
En El Salvador, los periodistas están inmersos de hechos de violencia y muerte que son enviados a cubrir como parte de las políticas del medio al que pertenecen; no obstante, hace falta preguntarse si es ético que el sufrimiento del hombre sirva como asunto de información periodística.
En la noticia escrita por Belén Quintana y Jaime López, periodistas de EDH, se deja claro que entre más descripción se haga del hecho, más controversia produce: “…Según las indagaciones, Cruz fue atacado por dos sujetos, quienes sin mediar palabra le asestaron dos disparos, a plena luz del día y en medio de una gran cantidad de personas que hacían las compras de la semana”. Acá se refleja cómo se ha convertido el escenario en una novela, jugando así con el sentimentalismo de los lectores.
¿Quién no recuerda el caso de Katia Miranda? Una niña que fue violada y asesinada a los 9 años de edad en 1999. Un caso que provocó gran polémica en la sociedad salvadoreña y del cual, hasta el día de hoy, los medios siguen dando la noticia, a través de sentimientos de compasión, ira y lástima. En la actualidad, y con la visita de Hilda Jiménez, su madre, y Gina Marcela, su hermana, al país (ambas viven en Estados Unidos con asilo político) El Diario de Hoy ha vuelto a generar un bombardeo hacia esta historia, a través de noticias que convierten el suceso en algo llamativo, instrumentalizando así el dolor del otro. Por ejemplo, la nota del 24 de noviembre, la cual se titula: “Madre y hermana de Katya visitan tumba”.
A raíz de esto, López y Russo afirman que la noticia es un acontecimiento actual, interesante y comunicable; es decir, que como ningún hombre está libre del sufrir, constantemente se ve envuelto en circunstancias que lo conducen a padecimientos de los cuales el periodista pretende ser testigo y hacer de eso algo de interés público. Con ello no se pretende que se dejen de reportear noticias dolorosas, porque de ser así se estaría desinformando a las audiencias; el problema radica en la manera en que se reportea y se presentan los hechos: como sucesos frívolos y distantes.
Ante la actitud de apatía y banalidad que tiene el periodista frente a la muerte, al cual ya no le horroriza nada porque todo le resulta aburrido y gris, vale la pena retomar la ética del ejercicio profesional que plantea Emilio Martínez Navarro “…la vocación profesional como proyecto personal de vida buena debe ofrecer un servicio de calidad a la sociedad y a la humanidad, teniendo en cuenta también a las generaciones venideras” . Por lo tanto, un profesional que no sea capaz de mantener la justicia y verterse hacia los más débiles, no sirve para nada.
La muerte: un dolor de todos los seres humanos
La muerte, aunque es común en la vida de todo ser humano, es algo difícil de aceptar por parte de las personas. Muchos hombres no admiten que son seres limitados y, como tales, van a morir. Asimismo, hay sufrimientos que son consecuencias de nuestra frágil naturaleza (enfermedades, ancianidad, soledad, etc.); no obstante, no hay que olvidar que el sufrimiento no es sinónimo de infelicidad y que la felicidad tampoco significa ausencia de dolor.
El hombre puede terminar evadiendo el dolor; sin embargo, sin darse cuenta, va dejando de ser hombre, porque al perder los vínculos profundos que lo unen con el otro cae en un vacío terrible. Y es que el ser humano aspira a la eternidad y desea perpetuar más allá de la muerte, no obstante ¿cómo puede salir de su condición temporal si no deja de lado el egoísmo que lo limita a pensar en los otros? Vale la pena, entonces, hacer una reflexión de la muerte desde la razón, sabiendo que hay un límite para todo y es irremediable el sufrimiento.
“Con 19 muertos el martes fue el día más violento del mes” , este fue uno de los titulares del Diario de Hoy, el pasado 26 de noviembre, lo que obliga a pensar que la muerte se ha convertido en números y entre más alta es la cantidad, más noticioso y doloroso resultan ser los acontecimientos. Al mismo tiempo, este medio se ha encargado de despojar de rostro humano a la muerte, sobre todo porque las cifras son aplastantes y aplastan a la humanidad; por lo tanto, ¿cómo puede cambiar la manera de ver el dolor ajeno cuando el individuo que sufre no tiene nombre?
Cada persona debería plantearse qué es lo que el otro necesita para que nuestra respuesta de necesidad sea de respeto y de mayor compresión, lo que facilitará la convivencia entre los hombres.
La anulación del ser humano como parte de la manipulación informativa
Los medios de comunicación se han caracterizado por ser las fuentes de información con mayor credibilidad en la sociedad. No obstante, dicha confianza semántica se ha ido corrompiendo con el pasar del tiempo debido al sensacionalismo con el que transmiten los hechos de muerte en El Salvador. Pareciera que la ética periodística es inexistente porque es siempre manipulable por la necesidad humana y el contexto.
A todo esto se suman los intereses que tienen los medios como estructuras institucionales que, a través de lo verosímil de las imágenes, construyen íconos representativos que encuadran y reducen la realidad. Carlos Álvarez Teijeiro dice que “Desde que los seres humanos somos quienes somos, la información ha sido entendida como sinónimo de poder” , lo que conlleva a pensar que entre más se maneje una lógica del dominio, más fragmentada y distorsionada será la percepción de la realidad.
El pasado 26 de noviembre, el ISDEMU (Instituto Salvadoreño de Desarrollo de la Mujer), publicó en EDH unas gráficas estadísticas, en las que se reflejó que en el 95% de los casos de violencia, las víctimas son mujeres. No obstante, este hecho se encuadró de tal manera que la información no pasó de ser un comentario sobre la marcha que muchos grupos de mujeres hicieron en las calles exigiendo protección del Estado frente a ellas; en lugar de presentar una noticia con mayores datos, análisis e investigación.
Y es que, ante los hechos de muerte por violencia, los medios de comunicación corren tres peligros éticos, respaldados por López y Russo, a la hora de tratar el tema del dolor humano: “camuflarlo en el anonimato, convertirlo en un espectáculo o hacerlo tan trivial que importa lo más mínimo”.
El segundo de éstos resulta más común sobre todo por la falta de compasión ante la dolencia de los demás; pues, mientras no se muestre empatía frente al dolor del otro, no se podrá construir una nueva humanidad. Ante esto, Hegel afirma que “…sólo llegamos a ser verdaderos sujetos asumiendo la condición, la verdadera condición de pobre, fracasado y víctima”.
Partiendo de que la ética es una reflexión de las conductas humanas, surge la idea de calidad de vida, pero calidad de vida para pocos, porque siempre que haya tragedia el periodista se inmiscuye hacia lo más drástico de los acontecimientos, donde se encuentran los más desfavorecidos. Aquéllos que no tienen ni voz ni voto dentro de la sociedad y que, por lo tanto, son el instrumento perfecto para que los medios de comunicación hagan la noticia.
El hombre es un ser que, por su misma especie, necesita relacionarse con los demás, pues de otra manera no podría sobrevivir. Por naturaleza, se inclina a defender su vida, pero ¿qué vida pretende defender? El problema radica en que frente al dolor que éste cuestionamiento le causa, la razón humana se pierde en la búsqueda de argumentos que la satisfagan.
¿Cuál debería de ser la actitud de El Diario de Hoy, que uno de los periódicos más fuertes en el país, frente al tema de la muerte y el sufrimiento?
El tema del dolor es uno de los grandes enigmas de la existencia humana pues, a pesar de convivir con él diariamente, el hombre se resiste a aceptarlo. Ante esto, ¿cómo EDH puede mostrar la novedad de la noticia frente a un hecho que se ha convertido en algo rutinario y teatral? Hasta el momento, la única vía que ha tomado es la del show y el espectáculo, utilizando titulares como el publicado el 22 de noviembre: “Violencia trunca sueños de 178 estudiantes”.
Se pueden buscar diferentes soluciones para encarar esta problemática de espectacularización de la muerte; sin embargo, resulta más viable una solución antropológica. Según López y Russo “hay que entender que el sufrimiento es una clave que se arraiga en lo más íntimo de la persona, al punto de poder afirmar que sin dolor el hombre no sería tal”. Por ende, los periodistas de EDH deben exigirse una reflexión más profunda de esta temática que toca profundamente al hombre en sí; y antes de cubrir noticias de dolor, deben tener presente la dignidad humana de la persona que lo padece.
Nuestra sociedad necesita que trabajemos la idea de consentimiento y que se le pregunte antes de tomar decisiones. Es necesario crear esta cultura para que al satisfacer la necesidad del otro, no se pase por encima del respeto que éste se merece. Desde una reflexión ética, el ser humano tiene la libertad inviolable de padecer su sufrimiento de manera personal, íntima y única.
Un periodista no puede perderse y quedarse con una imagen. Debe investigar, contrastar y comprobar los hechos aún si está sujeto a una línea mediática que rige su profesión. Un periodista que cubre hechos de muerte debe respetar la autonomía de cada individuo, con la responsabilidad que esto implica. Sólo poniendo en práctica el término de versión planteado por Ellacuría, podrá ver las necesidades de los demás sin instrumentalizar la figura humana; algo en lo que Hinkelammert también hace énfasis: “El bien común se destruye en el grado en que toda acción humana es sometida a un cálculo de utilidad”.
No obstante, cada profesional decide sobre su propia vida; por esta razón, el periodista tiene la responsabilidad ética de optar sobre qué quiere reportear y el tratamiento que le va a dar a la nota. Él es el único que puede escoger qué camino seguir: si los lineamientos de la empresa en la cual trabaja o laborar según sus convicciones, creencias y valores personales.
Cabe aclarar que en el período de fechas analizadas, 20-30 de noviembre, no se encontró ninguna noticia que tratara el tema de muerte por violencia de forma diferente a la presentada. Tampoco se encontró ninguna nota que planteara lo que significa la idea de calidad de vida para el medio, por ello el ensayo se basa en una critica de la actitud que EDH tiene frente al dolor, desde la ética de la muerte en las noticias informativas, tratando de dar algunas alternativas que pueden volver el trabajo periodístico más humano.
N.S and co.

domenica 2 maggio 2010

Medios de comunicación: una ideología subordinada por intereses económicos

Decir que los medios de comunicación son una empresa al servicio de otras empresas es más que una afirmación. Es una realidad. La realidad de los medios salvadoreños. Digo esto porque, en la actualidad, las cadenas mediáticas han reflejado y puesto en primer plano sus intereses económicos, al esconder información y publicar solamente aquella que le conviene a la empresa que da la noticia. Tal como sucedió con Baterías Record cuando fue clausurada por ser una empresa contaminante para el país.
Pero, ¿qué pasó con este caso? Los medios no le dieron seguimiento a este problema. Por muchos días se manejó una información superficial que lo dejó pasar como un suceso irrelevante, sólo se publicaban las declaraciones de fuentes oficiales sin contrastar datos.
Y es que éste es el gran problema: los periodistas, que deberían tener la información completa, se quedan sólo con la oficial; es decir, pasa algo y ellos trabajan sólo con las declaraciones, no hay ningún trabajo de investigación para averiguar y comprobar dicha información. Por ello, afirmo que el periodismo no es sólo reportear un discurso oficial, sino que es agarrarlo y averiguar si es cierto lo que se dice. Ese es el trabajo de todo periodista y que aquí no se cumple.
Pero, ¿por qué lo hacen? Porque los periodistas están subordinados a la ideología del medio para el cual trabajan; de lo contrario, son relegados de su cargo. Tal como ha sucedido con algunas figuras periodísticas en El Salvador. Es decir, por más que a mí, una estudiante de periodismo, me digan que debo ser imparcial, objetiva y veraz, ¿cómo lo pongo en práctica en un medio en el cual estos tres criterios no concuerdan con su corriente laboral? Debo conseguir un empleo para sobrevivir.
Sin embargo, en el periodismo salvadoreño, ¿la sobrevivencia es igual a la subordinación? Es evidente que sí. Ya que se requiere cumplir la ideología del medio para poder publicar una noticia; no obstante, no es mi objetivo detenerme en estas cuestiones, ya que quiero ir más allá. Es decir que, a pesar de todo, los periodistas deben repensar su función y tarea, aun trabajando para medios que también son empresas y que, por lo tanto, son rentables.
El intelectual mexicano, Jesús Silva Herzog Márquez, sostiene esta temática de una manera dura y dramática: “Los medios están siendo sustitutos de un órgano profesional relativamente centralizado, que sistematiza y pondera información, que comisiona investigaciones complejas, que impone a sus profesionales un código estricto”.
A mi parecer, a manera de conclusión, el trabajo de los medios está subordinado a los intereses de otras empresas; y, mientras esto no cambie, lo tradicional del trabajo periodístico, como convertir el hecho en noticia y validar la información, seguirá siendo cuestionado.
N.S.

venerdì 30 aprile 2010

Más allá del arte

Son las 6:30 de la mañana. Es lunes y hay que comenzar la jornada. Humberto Rivera no tiene una hora establecida para entrar a trabajar, sino aquella que él mismo se fija según los pedidos. Como es un día caluroso opta por ponerse una fresca camisa rosada, que combina muy bien con su piel trigueña y sus expresivos ojos verdes. Sale sin prisa de su casa, no sin antes despedirse de su esposa Ana y Betito, su hijo.
A sus 28 años es un micro-empresario. Tiene su propio taller al que llamó Arte y Artesanía. En el labora con todo tipo de materiales, desde piedras preciosas hasta cuero, alambre y barro. Prefiere llegar temprano para poner las cosas en orden. “Cuando vengo al taller, como a las 8:30, siempre hago la limpieza de los artículos que voy a ocupar y reviso la lista de cosas pendientes por hacer”, comentó Rivera.
Sin embargo, nunca pensó que un pasatiempo podría convertirse en su fuente de ingreso económico. Sabe que el depender de un empleo informal genera inestabilidad, pero por varios años buscó un trabajo fijo sin conseguir uno que le ofreciera un salario superior al que obtiene con las artesanías.
Para el economista Orlando Hidalgo Buitrago, el empleo informal es aquel segmento del mercado laboral que no está bajo el régimen de derechos que la ley le concierne al empleado formal. Al mismo tiempo, afirmó que el mercado informal se incrementa cada vez más, debido a que las personas al buscar un trabajo no logran conseguirlo.
En El Salvador hay una alta cultura emprendedora, la cual impulsa a las personas a echar andar un negocio. Como expresó Stanley Ramos, de la Dirección General de Estadísticas y Censos (DIGESTYC), en el país no hay una cultura de producción capitalista, sino una formación económica social; es decir, que si no se trabaja no se come.
Esta misma frase es la que Humberto Rivera tiene presente a cada momento. Hay días en los que no vende nada o los clientes no pueden pagarle las deudas, su misma preocupación lo lleva a rebuscarse para conseguir nuevos compradores. Sin embargo, en algunas ocasiones ha pensado en tirar la toalla y dejarlo todo.
Remembranzas artesanales
El reloj marca las 2:00 de la tarde. Humberto Rivera recoge las últimas cosas del taller y las guarda en su portafolio negro, en el cual tiene todas las piezas que debe ir a vender. Cada una de ellas está cuidadosamente colocada en su bolsa. Por las tardes se dedica a visitar a los clientes, quienes en su mayoría son mujeres.
En su faena, Rivera recuerda cómo descubrió sus habilidades en el arte. “En el 2000 comencé a estudiar comunicaciones en la UCA, y en la salida peatonal siempre había un artesano; entonces, en mis tiempos libres, me acercaba a él y empecé a ser su amigo…así me enseñó varios tips y técnicas”, comentó.
Cuando se dio cuenta de su habilidad, decidió cambiarse de carrera y estudiar diseño artesanal, en la universidad Doctor José Matías Delgado. Así comenzó a hacer artesanías y a venderlas con sus amigos. Sin embargo, solo era para ganar un poco de dinero. “Nunca me imaginé que ésta iba a ser mi fuente de empleo”, explicó.
Según el Directorio de Establecimientos de la DIGESTYC, en el censo del año 2007 se registró un total de 17,189 establecimientos de carácter informal en sus tres tipos: activos, inactivos y aperturados; las personas emprendedoras están clasificadas en el tercero. Lo que quiere decir que para este año se espera un incremento en el registro.
Mientras busca sus últimas herramientas, Rivera se acuerda de cuando quiso probar suerte en la calle. “Una vez me puse como artesano en las aceras, pero no me gustó porque era de aguantar bastante sol, lluvia y era incómodo”, dijo entre risas. De esa manera se dio cuenta de que quería algo formal. “A partir de allí pensé que si me dedicaba a esto lo iba a hacer de una manera más seria”, agregó.
De igual forma, para el Director del Distrito Uno de la Alcaldía de San Salvador, Mario Serrato, no es fácil vender en las calles, y no por lo dificultoso que resulta, sino porque como comerciante informal se deben tener los permisos y registros necesarios. Incluso, en enero de 2010, se levantó un censo para evaluar la cantidad de vendedores informales, por lo menos en el centro de San Salvador.
“Es un censo sencillo, en el cual se solicita al comerciante su nombre, DUI, giro comercial y los metros cuadrados que ocupa”, manifestó Serrato. Hasta la fecha se presume que ya hay alrededor de cinco o seis mil vendedores censados. Cabe aclarar que la alcaldía ejecuta este trabajo con fondos propios.
Una cosa no basta
A las 5:00 p.m. Rivera visita su última compradora. Es tarde y tiene una cita para las 5:40: la casa de una clienta. En medio del calor opta por recoger las mangas de su camisa, mientras camina apresuradamente. Desde hace un tiempo comenzó a dar clases privadas de artesanía. La mayoría de sus contratantes son amas de casa que quieren poner sus propios negocios artesanales.
Pero su labor no termina allí. Se considera un micro empresario; pero, como quiere mejorar, no deja de leer, investigar y actualizarse en la rama de diseño y mercadeo. “Solo así uno se da cuenta de lo importante que es buscar acciones de diferente partes para tener un ingreso económico y salir adelante”, aseguró.
Muchas personas optan por tener dos o tres trabajos alternativos, ya que con uno solo no logran subsistir. Esto se convierte en un problema a la hora de sacar datos estadísticos porque, como afirmó Stanley Ramos de DIGESTIC, podría haber más de una actividad económica en una misma realidad monetaria.
Los fines de semana Rivera tampoco descansa. Trabaja con la Asociación para el Desarrollo Humano (ADHU) y viaja a Sonsonate para dar clases de bisutería y artesanía a muchachos de ocho a 28 años. “Me gusta dar estos talleres porque disfruto ver cómo los jóvenes aprenden y salen adelante al elaborar sus propios productos”, comentó.
Pero no todo ha sido fácil. El 2009 fue un año difícil para Humberto porque fue el período en el que tuvo menos clientes y, si los tenía, se tardaban en pagarle. “Allí es cuando uno como vendedor debe puyar e insistir, y también no dejar de buscar nuevos compradores”, expresó.
En la actualidad, la mano de obra se ha visto perjudicada ante la crisis mundial, ya que se ha reducido la inversión extranjera y todo ha repercutido en un lento crecimiento de la economía. “Se espera que a finales de 2010 la economía se recupere”, declaró Orlando Hidalgo.
Arte y familia
Hoy llegó a su casa a las 9:00 de la noche. Está cansado. Ana y Betito lo esperan despiertos. Lo primero que Rivera hace es jugar con su hijo. Está pequeño y no lo ve en todo el día. Su familia es la responsabilidad más grande en su vida y nunca olvidará que es un regalo del arte.
Ana era una de sus clientas. Él iba a su oficina a ofrecerle los productos y así se enamoraron. Ella siempre lo ha apoyado y ambos se complementan. “Yo soy un soñador y ella es más realista”, manifestó. Sus padres también lo han ayudado. Siempre le dicen que se prepare y sea un profesional.
Para Humberto Rivera el empleo informal es más que un concepto económico. Para él es el oficio en el cual uno hace su tiempo y puede obtener sus propios ingresos, uno es su propio jefe. Sin embargo, DIGESTYC maneja otra definición. “Para nosotros el empleo informal es muy importante porque genera trabajos y contribuye a la economía del país”, declaró Ramos.
En El Salvador, no todas las personas que tienen empleos informales están registradas, es decir que no pagan impuestos, no declaran renta, entre otras cuestiones legales y fiscales. No obstante, no es obligación porque no todos tienen la capacidad para hacerlo, debido a la inestabilidad de sus ingresos. “Ellos a lo sumo declaran su IVA, porque su capital no les da para poder pagar todos los trámites y gastos”, sostuvo Ramos. Al mismo tiempo, agregó que es gente que no logra sobrevivir y esto de por sí ya es asfixiante para el micro empresario. Este tipo de problemas son muy complejos, pero desde ya se les debe buscar una solución.
Los proyectos de Humberto Rivera son muchos. Pero aquel que más desea es el de tener su propia tienda de artesanías. Con todo tipo de objetos de diferentes materiales. Sueña con exportarlos a Europa, donde asegura que los podría vender con un precio hasta cinco veces mayor.
Le gustaría que su hijo también se interesara por el arte. Sin embargo, sabe que esa es su ilusión y que cada uno debe luchar por la suya. Por ende, siempre ha pensado que lo importante es encontrar las destrezas personales, porque una cosa es tener el sueño y la otra es contar con las habilidades para cumplirlo.
A las 11:00 de la noche Rivera se va a la cama. Entre el silencio de la noche, lee un libro de diseño de piezas y ve un poco de televisión. Ha sido un día muy transitado y siente fatiga, mas para él su trabajo no es un sacrificio porque hace lo que le gusta. Lo que sí le duele es que, por trabajar, no puede convivir tanto con su hijo.
Son las 12:00 a.m. y el sueño lo ha vencido. Al día siguiente debe continuar la labor. Sabe que en la vida hay que ir contra corriente y hacer todo con calidad. Eso lo ha aprendido del arte, porque es éste el que le exige dedicación y responsabilidad.
N.S.

mercoledì 28 aprile 2010

Los medios de comunicación Una reflexión desde la ética y el bien común

Si reflexionamos un poco sobre el papel de los medios de comunicación en la sociedad salvadoreña, nos damos cuenta de que han perdido credibilidad frente a las personas. Ante esta situación, vale la pena preguntarse ¿por qué?

Fernando Savater afirma que “los medios de comunicación son un servicio público; es decir, son un servicio que está a disposición del público y para el público”, con lo cual se pretende dejar claro que todo medio debe trabajar en función de la sociedad. A favor del pueblo y para el pueblo. Debido a la dimensión transformadora que éstos tienen, logran dominar y persuadir a las audiencias a través de la creación de prototipos que manipulan las voluntades y pensamientos de las personas. Ante esto surgen dos grandes problemas: el primero es la concentración de la información. Todo lo que los medios publican es para la sociedad la versión real de los hechos; por ello ya no comprueban datos, manejándose así un mismo discurso.
Si pensamos un poco en lo que hoy en día transmiten los medios, nos damos cuenta de que es puro entretenimiento, lo cual conduce a tener un alto grado de desconocimiento de la realidad y, por ende, una total indiferencia frente a las situaciones que se viven. En las diferentes programaciones ya no hay debate, ya no hay una oportunidad que les permita a las personas razonar y argumentar; porque eso es lo que logra un debate: tener una discusión razonable con previo conocimiento y documentación de las temáticas. Savater, ante esto, argumenta: “Hoy los programas de debates han sido sustituidos por una especie de aquelarres, de monstruos surgidos de no se sabe qué espantoso lugar…eso no es un programa de debate…” Puede parecer exagerado, pero todo esto conlleva a una subordinación que los medios logran gracias a su poder persuasivo.
El segundo problema es la falta de abstracción. En la actualidad, a las personas ya no les interesa investigar y conocer lo que sucede; ya no razonan lo que ven, miran o escuchan. Están como adormecidos. Ignorantes frente a los problemas de los demás, ignorantes frente a los argumentos. Ignorantes frente a la razón.
No saber pasar de lo concreto a lo general ni tampoco poder dar un juicio personal para juzgar los acontecimientos, son dos grandes evidencias de la enorme influencia del discurso de los medios de comunicación en las personas, algo que Savater afirmaba con una frase: “Una idea no es una imagen”. Él decía: “…estamos viendo que las grandes ideas abstractas en los medios de comunicación se representan con imágenes”. Esto indica que los medios crean en las personas un ideal de cada cosa, para que éstas las juzguen con el criterio que a la cadena mediática le conviene.
Por ende, los seres humanos nos estamos volviendo incapaces de analizar las ideas que se nos presentan y, en vez de tomarlas como una propuesta, las seguimos como el modelo ideal. El ser humano se está dejando hipnotizar a la pasividad por las grandes corporaciones. El grave peligro es que se le está olvidando pensar, por ello busca algo o alguien que lo haga por él, y en los discursos de los medios ha encontrado el ente perfecto para que sustituya su autonomía como individuo. Pero, ¿cómo lograr salir de esta ignorancia en la que nos encontramos, si el tratamiento que se le da al discurso de los medios nos condiciona a actuar sin análisis ni abstracción?
¿Medios o empresas de comunicación?
¿Por qué los medios han dejado a un lado la función de ser servicios públicos para pasar a ser servicios comprados? No hay que dejar de lado que antes que nada son una empresa que busca vender; y, por lo tanto, su libertad de información llega hasta donde el cheque lo permita.
Es bastante complejo hablar de dicha libertad porque esto conlleva a la verdad, un término relativo para cada ser humano. Emilio Martínez Navarro habla de dos tipos de libertad: la libertad negativa y la libertad positiva. Sostiene que “…la libertad como no-dominación sería en un cierto sentido negativa (ausencia de dominación…) y en cierto sentido positiva (autocontrol, autodominio, autonomía personal). Pero, ¿hasta qué punto cabe hablar de libertad en los medios? Se supone que estamos en tiempos en los que hay libertad de expresión y que los medios son un claro ejemplo de ello. Pero al ver la realidad de la comunicación mediática en nuestro país, caemos en la cuenta de que todo se queda en un juego de palabras. Estamos llegando al límite de ser una sociedad desinformada, porque en lugar de transmitir una información certera de los hechos, los medios manejan los mensajes bajo sus propios intereses económicos.
Roland Jacquard afirma que la desinformación es “Un conjunto de técnicas utilizadas para manipular la información conservando su verosimilitud con el fin de influenciar sobre la opinión y las reacciones de las gentes”. Es decir, que el mensaje de los medios está inclinado al bienestar de las élites y no del ciudadano común que quiere recibir la verdadera noticia y que cree recibirla. El mensaje está manipulado por el mercado, y el grave error es que los medios están dentro del mercado. Un mercado que ve a las personas como individuos. Un mercado que rige todas las relaciones personales y maneja una lógica capitalista que sólo vela por el lucro.
Todo esto ha invertido la función de los medios porque ya no informan y, peor aun, ya no educan. Fernando Savater dice que “los medios de comunicación son un instrumento educativo”; pero, hoy por hoy, conviene preguntarse ¿educativos de qué? ¿De consumismo?, ¿de indiferencia?, ¿de individualismo?
A los dirigentes de las grandes cadenas mediáticas les convendría retomar el concepto de versión que plantea Ignacio Ellacuría, es decir, buscar a los demás, dirigirse a los demás. Ser un servicio de poder de información y no poner la información al servicio del poder.
El periodismo. Una profesión al margen del bien común
Para Emilio Martínez Navarro, “En cualquier profesión que merezca ese nombre hay dos polos complementarios: lo que mueve al profesional y lo que legítimamente demanda la comunidad a los profesionales”. A partir del segundo enunciado, cabe preguntarse: ¿Qué le demanda la comunidad a los periodistas?
Para responder a este tipo de cuestionamientos, es preciso no ver al periodista como un solo ente, que se manda a sí mismo y no depende de nadie, sino hay que reconocer y tener claro que detrás hay una institución o empresa que gobierna su actuar, por lo que éste se ve condicionado fuertemente al ejercer su profesión. En torno al periodista se mueven dos tipos de bienes: internos (que dan sentido y legitimidad a su profesión) y externos (reconocimiento, poder y riqueza). Pero, ¿dónde entra el bien común? ¿Cómo lo definen?
Si partimos desde el punto de vista de Franz Hinkelammert, podemos decir que el bien común “resulta de la experiencia de entender a otros…quien no se siente afectado no percibe ninguna necesidad de recurrir al bien común”; no obstante, aunque el periodista va a los lugares del hecho y vive la historia, no es su versión la que cuenta aunque haya experimentado las situaciones, sino los hechos que le convienen transmitir al medio, dejando atrás el beneficio de todos en cuanto a su derecho de información, y velando sólo por el bienestar de pocos.
Sabemos que no podemos desligar a los medios del mercado porque están sumergidos en él, pero es precisamente por ésta subordinación que surgen muchas exigencias del ser humano, el cual no se siente satisfecho con su trabajo. Asimismo, no se puede olvidar que vivimos en una sociedad enajenada por la mentalidad individualista, en la que cada uno actúa según sus propios intereses. Por lo tanto, el bien común queda al margen de la profesión periodística, que aún si es un trabajo social y el bien común parte de lo social, no se logran compaginar, ya que los medios de comunicación no están dispuestos a descentrarse de su yo; y, mientras el bien común se siga individualizando por parte de la sociedad, alcanzarlo seguirá pareciendo una utopía.
La ética del bien común desde los medios de comunicación
“Una sociedad donde quepan todos” y “la vida corporal de todos” son dos frases que retoma el filósofo Carlos Molina del teólogo brasileño Hugo Assmamm para plantear la idea de que somos seres sociales por naturaleza y necesitamos de otros seres para sobrevivir. Pero, ¿qué podemos hacer si el sistema capitalista se ha olvidado de esto? ¿Cómo sobrevivir en una sociedad que actúa bajo sus propios intereses y en donde el bien común se ha individualizado? Lastimosamente no tenemos muchas salidas, porque las oportunidades no son las mismas para todos y, por ende, todo se privatiza a nivel personal.
Las cosas serían más fáciles si el mercado contribuyera y le apostara a una sociedad más justa y equitativa. Pero sabemos que no es así y que lo que cuenta es llegar primero aun si eso conlleva a aplastar a los demás. Un claro ejemplo son los medios de comunicación. Lo importante para ellos es tener la nota antes que la competencia y sensacionalizarla para que llame más la atención, convirtiendo los hechos en show. Lo fundamental es el rating y vender. ¿Y la ética? Al parecer la lógica capitalista no entiende de ética.
Debido a todas estas distorsiones es que surge la preocupación por una ética del bien común, que si bien no resuelve la ética general, permite empatizar con el otro y entenderlo. Algo que no resulta nada fácil porque el ser humano se ha convertido en un “calculo de utilidad”, como lo llama Franz Hinkelammert. Es decir que cada persona ve al otro como un instrumento para alcanzar sus propios intereses, y cuando éste ya no le sirve lo desecha.
A manera de ejemplo, podríamos decir que una persona que trabaja para un medio, en este caso no la llamemos periodista porque no todos los que trabajan en los medios han ejercido dicha profesión, ve al otro como utilizable; ya que, por cuidar su trabajo o por otras razones, acepta todas las condiciones que el medio, en términos de empresa, le ordena. El conseguir una fuente clave a costa de lo que sea, el cambiar la versión de los hechos o el no contrastar informaciones, son algunas de las cosas que debe enfrentar si opta por mantener su bienestar, echando a la basura valores, principios y, obviamente, la ética.
¿El ver al otro como un instrumento es violar los derechos humanos? Claro que sí. No podemos aplastar la dignidad del otro, su autonomía y valor como persona para satisfacer intereses personales. No podemos pisotear y fingir que no pasa nada. Y no se trata de moralidades, sino de tener la conciencia de que el otro podría ser yo mismo. Carlos Molina dice que ahora “los derechos humanos tienden a interpretarse como derechos de la propiedad capitalista y de las relaciones mercantiles, los cuales se imponen por sobre los seres humanos de carne y hueso”. Es decir que en estos tiempos, sólo hablan de respeto de derechos humanos aquellos que tienen poder y que sienten perderlo, pero a los demás, que no tiene ni voz ni voto, nunca les han dado la oportunidad de reclamar los suyos.
Hinkelammert, frente a esta situación, propone “recuperar los derechos humamos”, ¿será posible? Nunca hay que perder las esperanzas. Por ahora es preciso pensar cómo hacerlo ya que, al parecer, los seres humanos nos estamos hundiendo, cada vez más, en un abismo de superficialidad e individualismo, donde sólo cabe el “yo” y lo que le interesa. El hombre, decía Pico Della Mirandola, tiene la posibilidad de volverse o como Dios o peor que un animal. Valdría la pena reflexionar sobre este aspecto.
Un intento por alcanzar la ética y el bien común en los medios de comunicación
Hoy en día, es difícil no dejarse someter por un poder que con su voluntad de dominio llega en todas nuestras relaciones (familiares, sociales, laborales, etc.). Este poder y su lógica siempre han sido y siguen siendo también hoy, el verdadero mal de nuestra sociedad. Es un poder que se expresa mediante la mentalidad dominante difundida por los grandes medios de homologación y de estandardización que cada vez más nos roban la cartera y el cerebro.
Este poder se observa en los medios de comunicación, como grandes entes de persuasión. No obstante, por ningún motivo hay que desaparecerlos, absolutamente. Lo que se pretende es recuperar su dimensión transformadora y educativa dentro de la sociedad.
Fernando Savater afirma que “los medios de comunicación no son nada ajeno o distinto a las personas; las personas podemos intervenir, podemos demandar, podemos reclamar, podemos, de alguna forma, orientar en los medios de comunicación también”. Es decir, que la sociedad tampoco puede quedarse pasiva y jugando sólo el papel de receptor, porque de ser así está contribuyendo al crecimiento de subordinación que ejercen los medios sobre la sociedad. Cada individuo debe despertarse y ser un juez frente a los medios, debe juzgar lo que transmitan y exigirles veracidad y objetividad. Vale la pena detenerse sobre este último punto porque es bastante controversial. Un grave problema es que la objetividad, al igual que la sociedad, también está enajenada y condicionada al contexto del mercado y la lógica capitalista; por ende, es bastante seguro que lo objetivo vendría a resultar subjetivo, porque su concepto es relativo para cada persona.
Para llegar a transformar los medios de comunicación es preciso comenzar desde los profesionales que laboran en ellos y de sus dirigentes. Martínez Navarro dice que “…la profesión es siempre una institución social que pretende ofrecer un servicio a la comunidad y a la vez tiene un compromiso ciudadano”, lo que significa que el gran reto de los medios de comunicación es volverse a ganar la confianza de la sociedad, abriendo un espacio para la opinión pública y el debate. Para el análisis y la argumentación. La sociedad necesita de medios de comunicación que permitan abstraer y razonar; no que se conviertan en un opio y conduzcan a la ignorancia.
Pareciera que construir esta sociedad ideal es una utopía; pero, de llamarla así, podemos afirmar que es una utopía alcanzable. Hinkelammert quiere llegar a esta lógica y a lo más radical y profundo de las personas. Él dice que no se deben dejar de lado “…los valores de reconocimiento y respeto mutuo entre los seres humanos…”, porque sólo esto conlleva a tratar de empatizar con el otro y entender sus experiencias.
Por otra parte, hay que recordar y tener claro que como sociedad necesitamos de los medios de comunicación, así como también necesitamos recuperar la confianza en ellos. Para esto, es importante que las corporaciones mediáticas traten de ligarse más al bien común y desprenderse un poco de los intereses del mercado. ¿Será posible? Cada quien debe responderse esta pregunta.
Para terminar, es preciso retomar una frase de Fernando Savater que engloba toda la reflexión: “A los medios de comunicación se les pueden atribuir muchos males, pero no es malo que existan. Puede ser malo que estén en manos de quienes están”.
N.S.

lunedì 15 febbraio 2010

Lo bailado nadie te lo quita


Prendo una notizia di ieri: nuovi morti, chiusi dentro sacchi della spazzatura, sono stati trovati lungo le strade di San Salvador, morti a causa del conflitto tra le maras.
Di queste bande giovanili si è molto parlato, è stato fatto addirittura un film documentario, si ricordano i mareros soprattutto per i loro tatuaggi, si ricordano, per me che li ho visto, soprattutto per le lacrime tatuate, simbolo indelebile di un assassinio. Ma come nascono le maras? È per una necessità di “difesa” della nazionalità che nascono queste bande che in California combattono contro gli altri latinoamericani presenti, è lì che nascono le due più famose bande: MS-13 e la mara 18, le due che poi apriranno gli orizzonti verso il territorio di Honduras e Guatemala.
Non voglio parlarvi dei metodi brutali che impongono ai neofiti ma del fatto che nel 1996 gli USA hanno modificato le loro leggi sull’immigrazione per rispedire, senza troppi problemi, i malviventi nelle loro città natali. Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, era, direi, logico che su un territorio debole e fragile, soprattutto politicamente, come il Salvador subito le maras avrebbero ottenuto successo, tanto da espatriare appunto in Honduras e Guatemala. C’è poi da aggiungere l’altra genialata americana, nel 2005 si decise di dividere, in vari territori dello stato americano, gruppetti di mareros per, secondo loro, distruggere la banda. Voi conoscete decisione più stupida?
È ovvio che una piaga così grossa e così radicata è difficile da estirpare, è ovvio che se si vuole mettere in ginocchio uno stato per poterlo meglio sottomettere bisogna agire sulle giovani generazioni. Uccidendole, sbandandole, incriminandole il futuro non arriva.
momò