sabato 17 luglio 2010

Uno sguardo attraverso “Il giardino di limoni”

Mi è capitato di vedere un film intitolato “Il giardino di limoni”, spinta forse dalla lettura degli articoli dell’amico Momò ( spero che Michael non si offenda se anche io lo definisco così) e anche dall’interesse per una situazione come quella tra Palestina e Israele, situazione di cui purtroppo si parla soltanto quando questo fa comodo ai vari signorotti che, ricordate, lottano “PER NOI” contro il terrorismo.
La storia narrata è quella di una donna palestinese, Salma, e del suo lavoro come coltivatrice di limoni (non pensate alle grandi imprese in senso occidentale, ma ad una piccola attività a livello familiare, diciamo). Fin qui niente di strano. Se non fosse che il Ministro della Difesa Israeliano decide di andare a vivere proprio accanto a questa donna e ai suoi amati alberi, al confine tra territori palestinesi e israeliani. Credo che questa del regista non sia una scelta casuale, poiché pone l’accento sulla differenze tra “difesa” ed “attacco”. A causa di questo nuovo vicino di casa, infatti, a Salma viene imposto dal governo israeliano di tagliare gli alberi del suo campo, poiché questo poteva essere usato dai terroristi per infiltrarsi in casa del ministro, nonché nei territori israeliani. La donna ovviamente, sconvolta da questa notizia, decide di lottare per quegli alberi che rappresentano, tra l’altro, la sua unica forma di sostentamento. Si rivolgerà per questo ad un avvocato con cui dovrà affrontare molti processi. La cosa che però più colpisce del film è il rapporto che si viene a creare tra Salma e Mira, moglie del Ministro, la quale non è favorevole al taglio degli alberi. Alcuni mi potrebbero dire che definire il loro un rapporto è un’esagerazione poiché non si scambiano che qualche occhiata e alcune parole rubate, ma è proprio qui il fatto: così nasce un rapporto, da un incontro e da un gesto, se pur piccolo. Ancora una volta purtroppo non vi posso offrire il finale ottimista che ciascuno, anche solo in parte, si aspetta, poiché come dice l’avvocato della pellicola: «il lieto fine c'è soltanto nei film americani...». A mio parere questo muoversi verso l’altro è già il finale ottimista, anche quando questo movimento implica dei contrasti con la società, gli amici e la famiglia. Solo così “si impara a capire che ogni uomo, anche l’ultimo, anche il più disgraziato, è un essere umano e si chiama fratello”, come diceva Dostoevskij.
小王子

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